La colomba e l’uovo, di Enzo Mazzi – Pasqua 2005
La colomba e l’uovo sono due simboli pasquali entrati ormai da tempo nel comune immaginario collettivo. Ci risparmiamo il terzo, l’agnello, non solo per compassione verso la strage degli “innocenti” ma perché rientra in un orizzonte simbolico diverso dagli altri due e induce a considerazioni di altro tipo.
Ridotti a folklore e a business quei simboli nascondono ormai più che rivelare la realtà di cui sono segno.
Ricondotti al contenuto profondo la colomba e l’uovo hanno in comune, in quasi tutte le tradizioni e culture, il senso della fecondità perenne e quindi della incessante rinascita della vita.
Ciò che invece normalmente sfugge è l’aspetto dell’attesa attiva.
Nel mito biblico del diluvio Noè invia una prima volta la colomba per alimentare la speranza della rinascita della vita. Ma essa torna a “becco vuoto”. Non ha trovato nessun segno di vita. L’inondazione ha distrutto tutto. Noè è costretto ad attendere. Aspetta una settimana. Ovviamente i sette giorni sono simbolici. Il sette è il numero che scandisce i giorni e i tempi della creazione. È dunque il numero della trasformazione cosmica, il numero del cambiamento. Ed è il numero che ha in sé il senso dell’attesa e anche dell’ansia per il passaggio da una condizione a un’altra. Noè dunque aspetta un tempo indeterminato, che sembra non finire mai, un tempo che sembra vanificare le speranze e che invece è creativo. Perché dopo “sette giorni” manda di nuovo fuori la colomba. Ed essa va, non si arrende, non si scoraggia. E finalmente torna col il ramo d’olivo verde, segno della vita nuova che rinasce.
A sua volta, il rapporto fra l’uovo e l’attesa è reso plastico dalla cova. L’uovo cosmico, da cui in molte tradizioni ha origine la natura intera, deve “riposare” un tempo indeterminato prima di esprimere la sua fecondità.
Nel legame fra questi simboli e la Pasqua cristiana il tema dell’attesa attiva non è affatto secondario. Le donne e gli uomini del movimento di Gesù devono vivere anch’essi il tempo angoscioso ed esaltante dell’attesa. Fino a configurare la resurrezione stessa come perenne “cova”. Tre giorni di attesa e di angoscia, tre giorni di sepoltura delle speranze dopo la crocifissione. Tre giorni simbolici che possono significare un attimo come mille anni (meglio sarebbe dire duemila anni!). E solo dopo “tre giorni” ecco il sepolcro vuoto e la promessa del ritorno. La resurrezione, stando ai racconti biblici, non è un evento miracoloso. È un processo mistico. È un sepolcro vuoto accompagnato da apparizioni mistiche e dall’attesa del ritorno. Siamo ben lontani dall’ideologia del potere e del trionfo che ha trasformato la resurrezione in un miracolo di gloria.
Le analogie di questi miti con la realtà attuale sono assai evidenti.
Anche noi viviamo un tempo di attesa. È un’attesa attiva. È una scommessa. È una cova. È un protendersi senza posa fuori dall’arca per verificare il livello distruttivo della inondazione della ingiustizia, della sofferenza e della violenza. Senza arrendersi, senza stancarsi. Potremmo dire, anche pensando e parlando laicamente, che viviamo ancora oggi un processo storico ed esistenziale di resurrezione. La nostra colomba continua a tornare a vuoto. Centinaia di milioni di persone hanno invaso le strade del mondo in questi due anni contro la guerra. Ma l’inondazione della cultura della violenza non ha fatto un passo indietro. Mezzo milione di persone a Roma per chiedere la liberazione di Giuliana Sgrena e la fine della guerra. E la colomba tornò insanguinata. E di nuovo strade invase nel mondo nel secondo anniversario dell’inizio della guerra contro l’Iraq. E l’uovo non si è ancora aperto.
Ma non ci arrendiamo e continuiamo a scommettere sull’uovo e sulla colomba, animando mille e mille esperienze di attesa positiva e attiva, di solidarietà, di risanamento delle ferite, di ricerca di percorsi di pacificazione nella giustizia.
È questa la Pasqua che ci auguriamo di vivere.”