Riflessioni a seguito della lettura di – Massimo Recalcati, “La tentazione del muro” e di Claudio Magris, “Utopia e disincanto”
C’è una divisione che attraversa ognuno di noi. Difendere la propria vita dall’incontro con l’ignoto o aspirare alla libertà di questo incontro, vivere nel chiuso della propria identità o mettere la nostra vita in una relazione con l’Altro. Sono queste due tendenze che, con la stessa forza, definiscono la vita umana.
Non si può liquidare la spinta dell’uomo a difendere i confini della propria vita individuale e collettiva come una spinta barbara e incivile. Gli esseri umani hanno sempre protetto la loro esistenza, dalla potenza della natura, dalla minaccia dei nemici ecc. La vita individuale, come quella collettiva, necessita di protezione, rassicurazione; edifica barriere per poter sopportare l’avversità del mondo. La spinta per delimitare il proprio territorio, di tracciare il confine è un’operazione necessaria alla sopravvivenza della vita.
Tuttavia, l’esistenza umana non è solamente desiderio di appartenenza e di rassicurazione, ma è anche spinta all’erranza, desiderio di libertà, desiderio del viaggio, dell’avventura, desiderio di conoscere l’altro, desiderio di superamento del confine.
Perché arriva la patologia … la malattia del muro?
Kafka in un suo racconto intitolato “durante la costruzione della muraglia cinese” ci offre un’illustrazione precisa della patologia che può investire la dimensione simbolica del confine. Lo straniero che abita al di là del confine (in quel caso i popoli del nord) proprio in quanto straniero è una minaccia insidiosa rispetto alla quale dobbiamo rafforzare i nostri confini. L’estensione infinita della muraglia deve poter esorcizzare questa minaccia creando un baluardo invalicabile. Lo straniero viene vissuto come un’entità maligna e crudele, capace di violare l’intimità delle nostre famiglie.
È la base di ogni principio patologico, Lo sviluppo di un tipo paranoide dell’identità. Ogni straniero porta con sé il rischio di una contaminazione nefasta per la nostra identità. Ecco allora che il confine si sclerotizza, diventa una staccionata, un filo spinato, una muraglia. Questa metamorfosi patologica del confine dimentica di considerare che la funzione simbolica del confine non è solo quella di limitare la nostra identica (individuale o collettiva) ma anche quella di garantire lo scambio, la comunicazione.
Ritroviamo qui che l’identità si irrigidisce contro ogni tipo di differenza, l’esperienza del trapianto di cuore, appare come un’intensa metafora. Affinché la vita resti viva è necessario misurarsi con la difficoltà del processo di inclusione e integrazione. Se il confine cessa di essere un luogo di transito, irrigidendosi (UNA MURAGLIA) la vita muore. Perché ci sia vita è necessario mantenere un confine poroso senza trasformarlo in un muro.
Bisogna ospitare il cuore di un altro. Il confine non può prescindere dalla figura dell’ospitalità. L’identità senza ospitalità è caos, è morte.
L’Odissea racconta le vicissitudini degli incontri di Ulisse con terre e popoli stranieri. Lui stesso è lo straniero, il migrante, lo sconfitto senza patria, non è più il re di Itaca, non il condottiero valoroso della guerra di Troia, ma l’emblema del naufrago. Quando Ulisse naufraga nell’Isola dei Feaci, Nausicaa dice alle ancelle: “fermatevi ancelle, dove fuggite alla vista dì un uomo, forse un nemico credete che sia? … ma questi è un misero naufrago che c’è capitato e dobbiamo curarcene, vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri … date da bene e mangiare e portatelo al riparo dal vento …”. È questo il fondamento etico della legge di ogni civiltà. il riconoscimento di come la terra sia terra comune. Dante diceva che la nostra patria è il mondo, come per i pesci il mare, come l’aria per gli uccelli.
Purtroppo, l’odio – come dice Freud – è più antico dell’amore perché esprime la spinta alla sopravvivenza.
Viene allora chiamato in causa il fondamentalismo.
L’attitudine della vita umana a fabbricare una versione dogmatica della verità che esige una relazione di adorazione di fede. Può essere politico, religioso o culturale il suo denominatore comune è che una sola verità impone l’ignoranza di altre possibili verità.
Consolida l’ignoranza come fondamento di una verità assoluta, non si configura più come mancanza di sapere, ma alla stregua dell’odio come una vera passione. La passione dell’ignoranza coincide con la sua pretesa di essere padrona della verità.
Una descrizione epica dell’inciviltà del fondamentalismo è il mito biblico della torre di Babele. Il loro delirio è quello di costituire un solo popolo, una sola lingua; è un popolo che sfida Dio nel nome della propria onnipotenza. Ai babelici è necessario sfidare la potenza di Dio per imporre la loro lingua unica, distruggere il pluralismo di tutte le lingue. La spinta alla conoscenza è una necessità o dovrebbe essere, come mangiare e bere.
Il sapere scriveva Don Milani nella sua Lettera ad una professoressa serve per darlo, con l’aggiunta decisiva che un maestro non è tale se non si impegna in questa attività di trasmissione, il maestro si impegna a far circolare il sapere per scalfire il consolidamento fondamentalista dell’ignoranza.
Il libro … una figura emblematica dell’aperto; è un mare contrapposto al muro. È il mare che unifica molti paesi, territori, razze, lingue.
I muri, nella storia, a distanza di secoli, si sono moltiplicati e differenziati, perfezionandosi a seconda degli scopi per i quali sono stati eretti (protettivi, escludenti, militari ecc).